Vigneti Vallorani: memoria e fantasia

Ci incontriamo all’ombra di un grande, profumato, tiglio. Intorno è un ronzio vitale di api. Fuori dell’ombra, un ampio prato verde, quasi sospeso nel cielo, permette allo sguardo di immergersi nel paesaggio.

Su questo prato c’era, nel prima, una casa, la “vecchia” casa, quella dei nonni. Adesso, nel dopo, la casa è alle spalle di questo prato. È più grande ma guarda ancora nella stessa direzione. Ci troviamo con Rocco e Stefano, sono fratelli, sono i nipoti. Così siamo sospesi sulla terrazza del tempo, dove una casa che non c’è più è diventata una cantina, e la cantina si è fatta nuova casa. La vite e l’ulivo hanno visto una famiglia crescere attraverso quattro generazioni e farsi custode della terra con la coscienza del prima e del dopo: l’appartenenza senza il possesso.

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Prendiamo una stradina laterale e i primi vigneti hanno alle spalle i Monti della Laga e i Monti Sibillini, qualche altro passo e occhi e stivali sono immersi nell’argilla, nell’erba e nel cielo azzurro. A sinistra i primi grappoli di Sangiovese, a destra il Montepulciano, più tardivo, sta per iniziare l’allegagione. Poi la strada nella vigna continua a nord-est e troviamo le varietà a bacca bianca, Pecorino, Passerina, Trebbiano Toscano.

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Otto in totale gli ettari di proprietà, sei vitati, uno piantato a ulivi.  Le vigne hanno dai 10 ai 60 anni. Il suolo è lavorato a mano, l’inerbimento tramite sovescio a filari alternati permette di mantenere la vitalità del terreno e di prevenirne l’erosione, soprattutto nei punti di maggiore pendenza. Il vino è integralmente prodotto qui, in maniera artigianale e senza l’utilizzo di correttivi chimici di sintesi e senza l’impiego di addensanti o chiarificanti di origine animale.

La memoria e la fantasia

Il vento

La bora soffia sui vigneti esposti a Nord/Nord Est. Qui le uve bianche maturano tra luce e ombra. Il Falerio, la denominazione più antica e rappresentativa di queste zone, si chiama Avora, a-Vora ovvero a-Bora. Nel vento le voci, i volti, i racconti del “prima” come profezie per il “dopo”.

Il “non luogo”

Nel prima Colli del Tronto era un insediamento agricolo, non propriamente un paese e per indicarlo si usava la distanza in miglia che lo separavano dalla città di Ascoli: otto miglia, ovvero, Ad Octavum. Proprio il lavoro agricolo è stato lo strumento di riscatto dell’identità di questo luogo. Il nonno Livio, mezzadro, si guadagna il nomignolo “Sor” riservato ai proprietari terrieri, grazie al lavoro illuminato.

La protezione ancestrale

Il legame con un luogo è per nascita e per origine. La nascita è fisica, l’origine è mitica. Ad esempio una fanciulla ribelle di nome Polisia che si rifugia su un monte, il Monte Ascensione che protegge le genti del Piceno.

Qualcosa di prezioso

Konè è una espressione dialettale picena, forse di origine greca, che indica “qualcosa di prezioso”, come i nipoti, ovvero la permanenza nel tempo, per un nonno.

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In etichetta dettaglio di “Maia” di Silvia Luciani

La Fantasia

La memoria funziona sempre in due direzioni.  Indietro, nel prima, nel “non-luogo” ha le radici. Nel dopo, che si costruisce attraverso il ricordo, il viaggio, torna viva e presente nell’immaginazione. Un vino contemporaneo è memoria del passato, viaggio nel presente, slancio nell’avvenire: la fiducia ben riposta in “qualcosa di prezioso”.

In nomen omen

La millenaria storia del Falerio dei Colli Ascolani è già scritta nel nome, tipicamente romano, del vino che deriva dall’antica città di Faleria, diventata poi Falerio Picenus e, oggi, Falerone. Il Falerio dei Colli Ascolani costituisce la testimonianza vivente della fama che, fin dai tempi della Roma Imperiale, avevano i vini del Picenum. La zona di produzione definita dalla Doc del Falerio si estende su quasi tutta l’area viticola della provincia di Ascoli Piceno e Fermo, che dalla fascia collinare sub-appenninica arriva sino al litorale adriatico. Passerina e Pecorino, che entrano nell’uvaggio del Falerio insieme al Trebbiano, vantano una storia secolare. Sono due vitigni di antichissima tradizione e con decisa origine marchigiana (almeno secondo i marchigiani).

L’istituzione della Doc è del 1975. Nella corsa generale a vinificare in purezza il Pecorino dell’ultimo decennio, la scelta di mantenere un vino da assemblaggio quale il Falerio come vino rappresentativo dell’azienda testimonia la precisa volontà di non seguire le mode e di mantenere, anche nella pratica, il radicamento alla tradizione contadina del territorio di appartenenza. Il Falerio è un vino capace di raccontare l’annata, costante nello stile ma ogni volta differente nell’equilibrio tra le varietà a bacca bianca che lo compongono.

La vendemmia 2018 dell’Avora è un balletto classico: acidità e sapidità danzano l’una a fianco all’altra e si uniscono in una complessa architettura che resta impressa nella memoria gustativa tutta intera, sorretta da una struttura solida e snella, che va in altezza più che in larghezza. La medesima eleganza e verticalità si ritrovano negli altri bianchi, ad eccezione della Passerina che presenta, volutamente, una maggiore opulenza. Dico volutamente, perché Zaccarì Offida docg Passerina, è un vino pensato per dimostrare la stoffa di un vitigno notoriamente classificato come facile e poco performante. Anche il contemporaneo e anticonformista LeFric, ottenuto con una macerazione di Trebbiano e Malvasia di dieci giorni e un affinamento parziale in anfora, mantiene pulizia, aromaticità e intensità gusto-olfattiva.

“Il vino è l’interpretazione umana dell’uva” diceva Giacomo Tachis e ancora “l’agricoltore serio vinifica come sente di fare e l’ispirazione gli proviene dalla campagna e dall’armonia raggiunta con essa; in questo modo il vino nasce dalla mano dell’uomo come la natura vuole che sia”. Il sapere e la tecnica non sono concetti in antitesi alla naturalità del vino quando sono strumenti al servizio della natura. Quello di Rocco è il vino dell’enologo: alla base del suo lavoro ci sono lo studio, la ricerca, la volontà di sperimentare per fare sempre meglio, ponendosi in un atteggiamento di ascolto attivo rispetto all’ambiente e al “sistema vigna”.

Lo dimostra anche l’amore viscerale per il Sangiovese che traspare dalla sue parole. Di fatto, il Sangiovese, è un vitigno stimolante per un enologo. Tra i vitigni più coltivati in Italia (e non solo) dà risultati molto diversi a seconda delle zone, delle pratiche agronomiche e delle tecniche di vinificazione. Il Sangiovese entra in relazione con il terroir tramite un processo di adattamento. Con il suo germogliamento precoce, l’alta produttività, l’invaiatura lenta e una maturazione fenolica spesso posticipata rispetto a quella tecnologica, costituisce una sfida agronomica e una scommessa enologica. Dotato di una spiccata acidità, seconda forse soltanto alla Barbera, riesce a esprimersi con livelli altissimi quando corpo e volume sono ben bilanciati e l’astringenza del tannino viene domata da una sapiente estrazione. Con queste premesse e un’opportuna maturazione, il Sangiovese si esprime come vino complesso, seducente e longevo.

Per i vini rossi vale la regola per la quale “il tutto è superiore alla somma delle singole parti” ovvero uno, il Sangiovese, più uno, il Montepulciano, non fanno due ma tre. E il “tutto” è differente in ciascuno dei vini rossi. L’acidità del Sangiovese e il tannino vivace giocano con il corpo e la carica di antociani del Montepulciano. Si conoscono e si integrano nella maturazione in legno e nell’affinamento in bottiglia, per un vino intenso e longevo come Konè; ma riescono a esprimersi con sincera schiettezza e carica gustativa anche affinati in tini d’acciaio e poi in cantina come nel caso del Polisia.
Giocato su una leggerezza soltanto apparente è il rosato; la vendemmia 2019 Octavum chiede a gran voce di poter restare qualche mese in bottiglia per esprimere la sua personalità.

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Vino al vino

Nell’autunno 1970 Mario Soldati intraprende il suo “Secondo viaggio” in Italia alla ricerca dei “vini dei genuini” e si muove anche tra le provincie di Pesaro, Ancona, Macerata e Ascoli Piceno. Dedica molte pagine, raccolte poi nel libro testamento “Vino al Vino”, alle Marche. Racconta questa regione come un “Paese diviso in se stesso […] complicato, contraddittorio, drammatico” per ragioni di carattere politico, storico, ma anche per una certo permanente contrasto tra gli insediamenti urbani del litorale e quelli delle colline e delle montagne. Ritrova soprattutto nei colli “costantemente coltivati”, quasi sempre a vigna, una “straordinaria grandiosità” che si stempera “nell’incanto luminoso del cielo”. Sottolinea come per le Marche la produzione del vino sia un fatto di grande importanza e come la viticoltura rifletta il carattere duplice delle regione: “arcaico, chiuso, rusticamente raffinatissimo, ma anche, e forse per questo, come per contraccolpo e compenso, esposta, più di ogni altra regione, agli squilibri di una modernità inconsulta ed esagerata”. Ricorda una frase del suo amico Filiberto Lodi “Le Marche sono il paese dei nonni” perché qui “tutti gli italiani al di sopra dei cinquant’anni” ritrovano “un poco della loro fanciullezza”.
Nel suo peregrinare in “un ristorante di un albergo di second’ordine” Soldati trova un vino “vero e locale”, bevuto soltanto dalla padrona dell’albergo, che gli viene servito in una bottiglia dell’acqua minerale e scrive: “Questo è il vino. Memoria. Fantasia.”

Nel nostro primo viaggio in terra marchigiana, poco più in là del confine abruzzese, cinquant’anni dopo, anche noi abbiamo ritrovato la memoria e la fantasia, il vino dei nonni e quello dei nipoti.

Informazioni su La Fillossera - Innesti di vino e cultura ()
Graziana Troisi è l'autrice del blog e degli articoli. Alcuni articoli sono di Giovanni Carullo.

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