La lezione di Bruno Giacosa

Il 10 luglio 2012 l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo conferì la laurea honoris causa a Bruno Giacosa, uno dei più grandi produttori di Langa, scomparso nel 2018 a 88 anni.

Di seguito pubblichiamo la Lectio Magistralis che tenne all’Università di Pollenzo. Mettetevi comodi, ci vorrà più di qualche minuto per leggerla tutta ma vi assicuriamo che vale la pena. 

“Io sono nato nel 1929 e tra i primi profumi che ho sentito ci sono stati anche quelli del vino di mio nonno Carlo. Proprio il 1929 è stato anche l’anno in cui il nonno è morto e in cui mio padre Mario ha preso in mano l’attività. Il nonno Carlo aveva iniziato a vinificare e imbottigliare già alla fine dell’Ottocento, ottenendo medaglie d’oro nei concorsi internazionali del tempo: come venne poi stampato per anni sulle etichette, i premi più importanti furono le medaglie d’oro di Genova nel 1901, di Torino nel 1902, di Reims nel 1903 e di Bruxelles nel 1910.

I vini prodotti erano quelli classici piemontesi, quelli che conosciamo ancora oggi: soprattutto Dolcetto, poi Barolo, Barbaresco, Nebbiolo, Barbera, Freisa e Brachetto. L’unico bianco era l’Asti Spumante.

Ovviamente il 1929 è stato anche l’anno della grande crisi, per cui mio padre decise di smettere di vendere il vino in bottiglia e di limitarsi a comprare uve, che poi o rivendeva direttamente oppure vinificava e vendeva poi il vino sfuso. In quei tempi, infatti, le pochissime cantine che imbottigliavano con una propria etichetta per lo più non avevano vigneti di proprietà e acquistavano le uve dai cosiddetti mediatori, ossia intermediari tra i vignaioli e le aziende che vinificavano.

Erano gli anni di cantine quali Calissano, Bonardi, Gancia, Contratto, Pio Cesare, Prunotto, Serafino, solo per ricordare le più famose, e alcune di queste sono attive ancora oggi. Per completare il quadro di allora, occorre di sicuro ricordare l’importanza di quei pochi nomi che invece producevano vini ricavati da vigne di proprietà, come l’Opera Pia Barolo e Fontanafredda, ma quelli furono anche gli anni della loro crisi, quando dovettero vendere terre e cantine a nuovi proprietari.

C’era già qualche piccola azienda agricola che vinificava, e sono nomi di prestigio come quelli dei Conterno, degli Oddero o dei Rinaldi, ma a livello di quantità di bottiglie erano poca cosa, il grosso del mercato era in mano agli imbottigliatori.

Io mi sono poi trovato, avevo 16 anni ed era appena finita la Seconda guerra mondiale, a entrare in cantina a fianco di mio papà e ho iniziato a girare con lui per le Langhe, a vedere come si faceva a comprare e a rivendere le uve, come si faceva a sceglierle e a distinguere quelle più buone da quelle poco interessanti, a ricordarsi quali erano le vigne che davano i migliori risultati. C’era anche il mercato delle uve in Alba, di cui io, come i tanti contadini che portavano lì le uve, non ho un bel ricordo, perché i mediatori aspettavano sempre fino all’ultimo momento prima di comprare, così i vignaioli erano costretti a vendere a qualsiasi prezzo pur di non riportarsi indietro il carro pieno. Era una cosa un po’ triste, soprattutto quando non c’era una grande richiesta di uve da parte degli imbottigliatori. Noi invece preferivamo andare direttamente nelle cascine, anche perché così potevamo scegliere le uve che ci piacevano direttamente sul posto. Dopo aver comprato le uve, davo anche una mano in cantina, dove si produceva comunque un po’ di vino che poi veniva venduto sfuso a quelle stesse aziende che compravano anche delle uve. Facendo il vino si guadagnava qualcosa di più, ma bisognava che fosse buono davvero, perché altrimenti c’era il rischio di non venderlo.

Qui devo dire di me una cosa che poi mi ha accompagnato per tutta la vita, e che faccio ancora oggi: io allora ero un ragazzo, e quindi non bevevo vino, però ho avuto subito un buon naso, nel senso che ho capito che facendo attenzione agli aromi che escono prima mangiando l’uva in tempo di vendemmia, poi assaggiando il mosto in fermentazione, e quindi il vino, si possono capire quasi tutte le cose che servono. Ho imparato cioè a usare il mio naso come mezzo per giudicare se un vino era pulito o sporco, se era in grado di invecchiare bene, se aveva abbastanza sfumature o se non si sarebbe mai aperto, se poteva meritare una sua etichetta apposita o se era preferibile mescolarlo con altre partite, se facevo meglio a tenermelo per qualche anno in cantina prima di imbottigliarlo o se era meglio che lo vendessi subito a qualcun altro.

Ovviamente ho anche messo in bocca e sentito il gusto di migliaia di vini, ma posso garantire che il mio naso si è sbagliato raramente. E questa è una cosa che continuo a ripetere anche ai giovani: imparate a usare l’olfatto, che oggi molti pensano che non serva più a niente: è con il naso che si capiscono le cose più importanti in un vino. E aggiungo un’altra cosa proprio mia personale, e spero che faccia capire qual è stato il mio approccio al vino: io non ho mai bevuto fuori pasto, anche perché credo che non faccia bene bere vino a digiuno, con lo stomaco vuoto, come fa invece tanta gente non solo in Italia. E, mangiando, a me piacciono i vini semplici ma appaganti, ricchi di frutto, diretti, che non diventino più importanti del cibo.

Per cui a me è sempre piaciuto il Dolcetto, che va benissimo con quasi tutti i piatti della cucina piemontese. Quando ho proprio voglia di un bicchiere importante, che mi pare stia bene con una certa ricetta, allora mi apro un Barolo o un Barbaresco, ma un po’ vecchi, in modo che abbiano già tutti i loro profumi ben aperti e chiari, e la cosa a cui sto più attento sono sempre e ancora i profumi.

Intendiamoci, quando dico vecchi intendo da dieci anni in su, non è obbligatorio che ne abbiano trenta o quaranta. Anche se devo dire, e lo faccio anche con un po’ di piacere, che molto spesso i miei vini si sono dimostrati capaci di maturare in bottiglia proprio per trenta o quarant’anni senza avere nessuna nota di vecchio o di marsalato. E credo che questa sia una delle ragioni che mi hanno fatto conoscere in giro per il mondo. Ancora adesso leggo di giornalisti che assaggiano delle mie bottiglie degli anni Settanta e scrivono cose magnifiche, dicendo che sono vini maturi ma non vecchi, non decrepiti, molto profumati e belli rotondi in bocca. E questo mi dà ancora qualche bella soddisfazione.

Tornando alla mia gioventù, finalmente se ne vanno i periodi più difficili, la guerra è finita e negli anni Cinquanta comincia già a vedersi qualche segnale di ripresa, l’economia si rimette in movimento e torna anche l’interesse per il vino di qualità, assieme a un po’ di soldi che consentono agli italiani di bere qualche bottiglia più di prima. E allora convinco mio padre a lasciarmi fare e a riprendere in mano la produzione di bottiglie che aveva iniziato mio nonno: è il 1960 e decido di far nascere la Bruno Giacosa. Avevo 31 anni e da 15 giravo per le cascine e per le vigne, per cui mi sentivo pronto a prendere l’iniziativa e a dimostrare che ero in grado di fare dei buoni vini.

A quei tempi, in verità, non avevo grande conoscenza dei vini del resto d’Italia e del mondo, ne avevo assaggiati ben pochi. Avevo però già degustato tantissimi vini delle Langhe e mi ero convinto che meritassero di più, che potessero tornare a essere importanti come ai tempi della nascita del Barolo, quando questo vino veniva apprezzato anche nelle corti europee. E, per dirla tutta, avevo anche assaggiato tanti vini non buoni, con dei difetti evidenti o che il nome Barolo ce l’avevano scritto solo sull’etichetta. Erano gli anni in cui non c’erano ancora le Doc, arrivate subito dopo nel 1963, e men che meno le Docg, che sono del 1980, per cui diciamo che la produzione non era tenuta a rispettare molte regole e si continuava, addirittura, a sentir parlare di imbottigliatori locali che andavano nel Sud Italia a comprare partite di vini che venivano poi mescolate con il nostro nebbiolo.

È così che decido di dedicarmi a fare solo vini di qualità. Ma intendiamoci, qualità per me non ha mai voluto dire solo Barolo e Barbaresco. Qualità per me ha sempre voluto dire fare il meglio possibile con le uve tipiche della nostra zona, con tutte le uve che si erano sempre coltivate nella parte meridionale del Piemonte, quindi dal Grignolino alla Freisa alla Barbera al Dolcetto. E, per fare vini di qualità, decido anche che avrei iniziato comprando le uve più belle che potevo nei più bei vigneti delle Langhe. E decido di comprare uve anche perché, quando ho iniziato, non avevo la disponibilità economica per acquistare delle vigne, per cui mi andava bene così: era il 1960 e in quell’anno ho cominciato a etichettare 20.000 bottiglie di vini diversi, che ovviamente avevo vinificato e conservato nelle vendemmie precedenti, a partire dal 1957, che è la data della prima etichetta che ha portato il mio nome.

In quel periodo non avevo ancora una distribuzione come esiste oggi attraverso rappresentanti e importatori, per cui per lo più ricevevo personalmente in cantina privati e ristoratori che si caricavano direttamente il vino in macchina. Ma posso dire di aver avuto anche un po’ di fortuna, almeno per il bel periodo in cui ho iniziato. Infatti ho cominciato presto a vedere dei tedeschi, c’è stato un buon passaparola, qualche giornale ha fatto subito il mio nome e, insomma, sono riuscito a far crescere la produzione con buona costanza e a non avere mai dei problemi di vendita. Anzi, devo purtroppo dire che non sono mai stato attento a conservare delle bottiglie delle varie annate: e questo è uno sbaglio, perché non mi consente di far conoscere la memoria storica della mia cantina e di organizzare degustazioni di vini molto vecchi. E quindi voglio fare una raccomandazione a tutti i miei colleghi più giovani: tenete da parte delle bottiglie, soprattutto quelle delle annate più buone, perché vedrete che vi saranno utili e che faranno parlare di voi anche dopo decenni.

Perché l’importanza di una zona enologica si dimostra quando si possono stappare delle bottiglie di 20, 30 o 40 anni e scoprire che sono ancora più buone di quando sono state messe in commercio, come hanno ben dimostrato i francesi.

A questo punto non posso non citare la persona che mi ha fatto decidere a fare un cambiamento che poi si sarebbe rivelato molto importante per la mia cantina e per tutta la zona. E parlo di Luigi Veronelli. Veronelli è venuto spesso ad assaggiare i miei vini, gli piacevano molto già nei primi anni Sessanta, però si lamentava perché “non avevano un nome”.

Seduti a tavola – mentre mangiavamo assieme i piatti preparati da mia moglie Mariuccia, che quando poteva gli faceva sempre trovare dei tartufi, di cui lui era un grande appassionato – Veronelli continuava a consigliarmi di scrivere in bella evidenza sulle etichette il cru delle mie diverse selezioni. Infatti io, fino ad allora, scrivevo solo il nome del vino (ad es. Barolo o Nebbiolo d’Alba), al massimo arrivavo a scrivere Riserva nelle migliori annate, come ho fatto per la prima volta con il Barbaresco Riserva Speciale 1961. Io avevo ben in mente l’importanza dei singoli vigneti, che allora non si chiamavano ancora cru, anzi era proprio il concetto che avevo alla base del mio lavoro di selezionatore di uve per me e per altre cantine con cui continuavo a fare il mediatore, però avevo un po’ di paura a fare questa scelta.

Questo perché la tradizione più consolidata nelle Langhe era quella di unire le uve di vigne diverse (parlo soprattutto di Barolo e Barbaresco), e devo anche dire che qualche buon motivo per fare questi assemblaggi c’era: un anno c’era più siccità e venivano meglio le uve in una posizione un po’ meno soleggiata, un anno c’era la grandine che ti portava via mezzo raccolto in una vigna, e così via. Inoltre, erano ben pochi i produttori che avevano già iniziato ascrivere il nome del vigneto sull’etichetta. Ricordiamoci che non c’era ancora la Carta dei vigneti del Barolo di Renato Ratti, ed era ben lontano da venire l’Atlante delle vigne di Langa di Slow Food, però, in effetti, io una mia idea sulle migliori posizioni delle nostre colline me l’ero fatta.

Quindi, decido che Veronelli aveva ragione e che chi si stava appassionando ai miei vini aveva il diritto di sapere il nome del vigneto in cui si coltivavano le uve che decidevo di vinificare, per cui esco nel 1967 con le mie prime due etichette cru: Barbaresco Asili e Barolo Collina Rionda (quella che poi avrebbero chiamato Vigna Rionda), seguite nel 1968 dal Barbaresco Santo Stefano.
La mia idea di vino era allora, e lo è ancora oggi, piuttosto semplice: volevo fare dei vini molto buoni, quelli a base di nebbiolo dovevano migliorare per molti anni, e il tutto doveva avvenire nel modo più naturale possibile. Per fare un esempio, io non ho mai voluto, e ancora non voglio, aggiungere lieviti esterni, che ovviamente vanno a modificare un po’ le caratteristiche del vino, per cui tutte le fermentazioni voglio che si attivino solo con i lieviti naturali che ci sono nelle vigne e in cantina. E in vigna ho sempre cercato uve che fossero trattate il minimo possibile, anche se è diventato sempre più difficile.

Faccio qui un inciso importante, che mi ha poi portato a cambiare l’impostazione dell’azienda e a comprare della terra: fino a quando non c’è stata la meccanizzazione e non ci sono stati i Consorzi agrari che hanno iniziato a vendere prodotti di tutti i generi, il lavoro in campagna era assolutamente semplice e avveniva senza dare diavolerie. Si faceva tutto a mano e ci si limitava a fare trattamenti con il verderame e con lo zolfo. Punto e basta, e le bucce delle uve erano spesse e compatte, non si disfacevano mai.

E voglio dire subito anche un’altra cosa: quando, siamo negli anni ’80 e ’90, c’è stata la polemica tra innovatori e tradizionalisti, spesso mi sono visto attribuire la qualifica di tradizionalista. Ma io non mi sono mai inserito nel dibattito. Voglio però dire che, in realtà, sì, io sono profondamente legato all’espressione più classica dell’uva nebbiolo, perché sono convinto che non abbia bisogno di aggiunte esterne. Sono sempre rimasto legato, quindi, all’uso di botti piuttosto grandi per la maturazione di Barolo e Barbaresco e non ho mai voluto adottare le barrique,
proprio perché ho visto che una lenta evoluzione, come quella che avviene in una botte grande, è il modo ideale per arrivare a vini che rispettino pienamente la personalità delle nostre uve e che migliorino per molti anni in bottiglia. Però devo anche dire che io ho sempre fatto dei cambiamenti, certo in modo lento, ma continuo.

E che anno dopo anno ho studiato come realizzare vini ancora più buoni, come trattare le diverse vendemmie e i cambiamenti di clima che, comunque, ci sono sempre stati tra una vendemmia e l’altra. Un tempo, ad esempio, facevo macerazioni sulle bucce che arrivavano a due o addirittura a tre mesi: ma quando non ho più avuto a disposizione delle uve che consentissero delle macerazioni così lunghe, ho ridotto gradualmente, e oggi è raro che superi i 20 giorni di contatto tra bucce e vino. Come ho anche presto abbandonato il cemento, che non mi dava tutte le garanzie di pulizia e di igiene che mi dà invece l’acciaio. Allo stesso modo, ho visto che usare le stesse botti per molti anni, per decenni addirittura, come si faceva una volta, dà al vino dei profumi che, appena aperta la bottiglia, non sono sempre convincenti e franchi, per cui bisognerebbe fare come si consigliava un tempo, e cioè aprire la bottiglia qualche ora prima di berla. Ma oggi quasi nessuno è più in grado di fare così, perché si va al ristorante e si sceglie un vino che sarà bevuto dopo 5 minuti.

Dopo varie esperienze ho allora deciso di non cambiare il volume delle botti, che possono tranquillamente restare attorno ai 10.000 litri o anche di più, ma che è opportuno cambiarle più spesso, diciamo attorno ai 10 anni. E, senza con questo fare l’occhiolino alla moda delle barrique, devo dire che da tanti anni uso solo rovere di origine francese, che trovo molto fine, elegante e sicuramente adatto a far maturare bene il nebbiolo. Non voglio però dire che mi sono inventato questo stile tutto da solo: con pochi produttori con cui avevo un rapporto di amicizia e di fiducia mi sono sempre confrontato volentieri, e insieme abbiamo parlato cento volte di come migliorare sempre di più i nostri vini.

Tra questi produttori ce ne sono almeno due che voglio ricordare e che voglio indicare a tutti come persone che hanno veramente fatto del bene al mondo del Barolo, che purtroppo ci hanno lasciati ma che spero di cuore che non siano mai dimenticati: sono Bartolo Mascarello e Aldo Conterno.

Per quanto riguarda le mie scelte produttive, devo aggiungere che negli anni ’70 stava nascendo nei consumatori anche una richiesta sempre più forte di vini bianchi, per cui ho deciso di dedicarmi al vitigno locale più importante, l’Arneis, e devo dire che ho avuto ottimi risultati da parte dei consumatori fin dal primo anno, che è stato il 1976. Pur non essendo io personalmente un appassionato di bianchi, ho cercato di fare un Arneis piuttosto intenso e importante, sempre e solo con uve di prima qualità, per cui è andata bene e sono contento di questa scelta.

Passa il tempo, intanto, e mi rendo conto che trovare le mie uve ideali è sempre più difficile: a volte produzioni troppo alte di uva, altre trattamenti che mi sembrano troppo invasivi, in altri casi ancora i vignaioli iniziano a diventare cantinieri e a prodursi da soli il loro vino: come tutti sanno questo è un fenomeno che dalla fine degli anni Settanta ha interessato in modo massiccio tutte le Langhe. Per fortuna avevo risparmiato qualcosa (anche perché non mi sono mai dato alla bella vita, ho sempre lavorato sodo, non ho mai sperperato soldi in giro e non mi sono fatto ville all’estero e barche) ed ero finalmente in grado di comprare qualcosa di importante.

Ovviamente, avevo già deciso che, quando avrei potuto mettere su delle vigne di mia proprietà, avrebbero dovuto essere quelle a cui ero più legato, quelle che mi avevano dato delle emozioni e che ero sicuro avrebbero potuto garantirmi di fare grandi vini. Ecco quindi che nel 1980 riesco ad acquistare una grossa vigna in Serralunga, i 13 ettari del cru Falletto al completo (qui avevo già preso 1 ettaro e mezzo 5 anni prima e avevo visto che meravigliose uve vi nascevano).

Per arrivare a trovare un bellissimo vigneto in vendita nella zona del Barbaresco ho invece dovuto aspettare fino al 1996, quando ho avuto l’occasione di acquistare più di 5 ettari negli Asili. Nel ’98 ho comprato anche qualche ettaro vitato a La Morra, ma devo dire che ho poi rinunciato a fare un cru di Barolo con queste uve: ormai i miei vini erano piuttosto conosciuti, e non solo in Italia, per cui gli appassionati da me si attendevano vini robusti e importanti, mentre il Barolo che ricavavo di qui era un po’ più sottile e delicato. In compenso a La Morra faccio ottimi Dolcetto e Barbera.

Qui c’è una cosa molto importante che voglio dire: lavorare la vigna, oggi, non è più duro e faticoso com’era una volta, anche se comunque c’è da sudare. E resta un lavoro difficile e molto delicato, che deve essere fatto da persone che abbiano esperienza e voglia di fare bene. Per questo, quando devo comprare delle uve, voglio sempre essere ben sicuro di chi va nei filari, di chi fa le potature, eccetera. E io, nei miei vigneti, ho tutto personale fisso e regolarmente assunto, che anno dopo anno migliora le proprie capacità.

Mi spiace anche molto vedere che i giovani italiani non vogliono più fare i vignaioli, come se fosse un lavoro di serie B. Io invece voglio dire a tutti che lavorare la campagna può dare grandi soddisfazioni: vedere come si fa crescere un vigneto, che tipo di uve maturano e fare una bella vendemmia può essere un bel lavoro anche se poi si vendono le uve e non le si vinifica direttamente, per cui mi auguro che ci sia una rivalutazione della figura del vignaiolo, che, non dimentichiamolo mai, è quello che decide se il vino sarà buono oppure no, perché in cantina c’è ben poco da inventare e, se le uve non sono sane, non si potrà mai creare una grande bottiglia. Quindi il mio augurio è che, come noi produttori siamo diventati famosi e abbiamo fatto un po’ di fortuna, e quindi adesso tutti ci guardano con rispetto, anche il lavoro del contadino riacquisti la considerazione che merita, anche a livello economico.

Come dicevo, sono stato tradizionalista anche nei vitigni che ho scelto di vinificare, tutti espressione del nostro territorio. Ho voluto fare un’eccezione solo con lo Spumante, che ho iniziato a realizzare nel 1983 con uve pinot nero provenienti dall’Oltrepò Pavese. Ma, a guardare bene, in Piemonte c’era una tradizione ormai più che secolare di produzione di spumanti, per cui mi sono semplicemente collegato alla nostra storia, senza fare strappi.

Vorrei aggiungere una cosa sul mio modo di lavorare, sperando che serva come indicazione anche ai più giovani: io sono sempre stato un po’ accentratore, forse anche troppo, quando c’era da controllare che le fermentazioni andassero bene io stavo in cantina anche di notte e mi fidavo più di me che degli altri. Ma ho avuto la fortuna di avere attorno a me una squadra valida che ha capito l’importanza di questo lavoro e che ha collaborato alla sua riuscita: da mia moglie Mariuccia, che non si è mai occupata direttamente di vino ma che ha organizzato la mia vita in modo che io mi sentissi sempre a mio agio nel lavoro, a mia figlia Bruna, che da vent’anni è impegnata con entusiasmo e spirito di sacrificio a valorizzare i nostri vini qui e nel mondo, a mia figlia Marina che mi ha dato uno splendido nipotino sino a tutti i miei collaboratori, che formano una perfetta squadra di lavoro.

Per concludere vorrei dire questo: ho avuto molta fortuna, i miei vini sono apprezzati in tutto il mondo, lascerò alla mia famiglia e alla mia terra un nome che è diventato importante per tanti appassionati di vino, e la cosa mi fa ovviamente piacere.

E di questo devo rendere omaggio anche a chi si è con passione dedicato alla valorizzazione dei nostri vini e delle nostre terre. Ho già ricordato Luigi Veronelli, ma, a partire dalla fine degli anni ’80, Slow Food è stato quello che ha impresso una nuova marcia e ha consentito l’affermazione a livello mondiale dei vini delle Langhe. Con la sua guida Vini d’Italia, pubblicata assieme al Gambero Rosso e tradotta in tedesco e in inglese, con l’Atlante delle vigne di Langa, con mille iniziative che ci hanno messo sotto i riflettori di tutto il mondo.

E, a proposito di mondo, devo ringraziare tutti i giornalisti che in noi hanno creduto. Per quanto riguarda me personalmente, io non ho mai frequentato molto i giornalisti, ma ci tengo a sottolineare il ruolo che hanno avuto e che hanno Robert Parker, Antonio Galloni e James Sackling, e prima ancora i simpatici coniugi Wasserman: ma se ci penso devo dire che siamo un po’ tutti a dover ringraziare questi giornalisti, non solo io, perché hanno veramente aperto alle Langhe i mercati internazionali, e non solo quelli nordamericani.

Ai giovani che sono qui oggi a sentirmi voglio dire un’altra cosa, voglio segnalare un errore che io ho fatto ma che loro non devono ripetere: viaggiate, andate per il mondo, assaggiate vini fatti da altre parti e quelli dei vostri vicini, perché non è più il periodo adatto per occuparsi di cantina e vigna e basta. Lo ripeto: è stato un mio errore quello di aver viaggiato poco e di non aver studiato altre lingue, ma voi giovani imparate a confrontarvi con produttori e mercati di altri Paesi, perché sarà utile a formare anche una cultura più aperta e non più chiusa nel nostro provincialismo.

La cosa che mi fa più piacere, al di là della mia cantina, è vedere che le Langhe sono diventate sempre più un luogo in cui si produce qualità, che il nome di queste terre è stato inserito nella ristretta cerchia delle aree più vocate del pianeta, che questi vini hanno finalmente il successo che io, fin da giovane, speravo che avrebbero potuto meritarsi. Non è stato facile, e anche oggi viviamo dei momenti poco sereni, ma sono orgoglioso di aver contribuito a diffondere nel mondo l’immagine dei vini Barolo e Barbaresco: ci saranno ancora crisi economiche e si potranno ridurre ancora i consumi di vino, ma questi due nomi sono entrati nel cuore, e nella bocca, di tanti appassionati e ci garantiscono di poter guardare al futuro con un po’ di serenità.

Finisco davvero: io non so se merito questa laurea, ma sono lieto di poterla dedicare alla memoria di Aldo Conterno e a tutti i produttori che fanno vino di qualità nelle Langhe.”

Informazioni su La Fillossera - Innesti di vino e cultura ()
Graziana Troisi è l'autrice del blog e degli articoli. Alcuni articoli sono di Giovanni Carullo.

3 Commenti su La lezione di Bruno Giacosa

  1. Lettura utile e interessantissima, complimenti… mi piace molto il vostro blog e l’approccio curioso al vino! Michelangelo

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  2. DEG. Eventi e Degustazioni // 11 settembre 2019 alle 18:14 // Rispondi

    grazie a voi, a rileggervi! PS. segnalo il mio nuovo blog per appassionati di vino https://eventiedegustazioni.wordpress.com/

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