Gianni Mura: confesso che ho bevuto, mai però per dimenticare
Sport, vino e cibo perdono una grande firma. A queste grandi passioni Gianni Mura ha dedicato la sua vita con una scrittura raffinata e di sostanza, sempre lontana dei classici cliché. Vogliamo ricordarlo con questo racconto sul vino scritto alla sua maniera.
“Un gutein (confesso che ho bevuto) al fiulein. Alzo il bicchiere ennesimo in ricordo del primo e in memoria di Ida e Guerino Isolani. Ma è un bambino, disse mia madre. Santa Maria della Versa, Natale 1949, profumo delle bucce di mandarino sulle stufe. Un po’ di moscato nel bicchiere, lo vedo come se fosse adesso, il naso dentro a cogliere quel profumo dolce e così diverso dagli altri dolci (le caramelle, il torrone, la ciambella, il panettone). Ecco, il naso: l’avevo visto fare agli altri, i grandi, ma non sempre. Non col moscato, coi rosso senza schiuma. Il dolce, prima era un sapore, non un profumo. In quella miniera di dolce aggiunsero un’abbondante dose d’acqua. Era il mio battesimo e ne ero consapevolmente entusiasta. Era una temporanea ammissione ai riti degli adulti, Così non gli fa male, stia tranquilla. Infatti. Solo che il profumo con tutta quell’acqua era quasi sparito. Anche lo bollicine. Ma non era il caso di prendersela troppo, sentivo che mi sarei rifatto.
[…] Non voglio annoiare coi ricordi d’infanzia. È solo per dire che il vino faceva parte del mondo quotidiano. Bianco o rosso, dolce o secco? Nelle nostre case la domanda era questa. Secco era il riesling, o una barbera violacea cui mi sarei accostato molti anni dopo. Confesso che ho bevuto, mai però pero dimenticare. Ci vuol altro, in genere. Però ricordo che armandolà era, in gioventù, il preferito. Poi ho scoperto che in italiano si dice ammandorlato. Era rosso, con un po’ di spuma, fresco, una vena morbida che si apriva dopo, faceva venire appetito e non toglieva la sete. Altri, in quegli anni, avevano scoperto il vermut o, nel mobile bar, l’immancabile alchermes, o i cristalli di zucchero nelle bottiglie di Millefiori Cucchi. Ho percorso gli stessi sentieri, ma per curiosità e con un’assoluta fedeltà al vino. Quello dell’Oltrepò mi ha tenuto buona compagnia per un pezzo, nei paesi senza vigne. Si prendevano le damigiane, si imbottigliava.
[…] Ho conosciuto Gianni Brera nel ’65, Luigi Veronelli nel ’74. Mi hanno insegnato molte cose, ognuno a modo suo. Altre le ho imparate da solo, sul campo del tavolo. Confesso che ho bevuto. E molto. Anche bene. Non sempre. Con qualche vino ho rischiato lo stomaco, con altri di mettermi a scrivere poesie, di altri ancora mi sono innamorato. A un certo punto avevo deciso di conservare le bottiglie che mi avevano dato un’emozione particolare, ma in cantina le vuote erano più numerose delle piene. Aria. E poi le emozioni non sono francobolli, non si archiviano, non si collezionano. M’è venuto in mente di quando era ancora vivo Guido, a Cigliole, e un cliente americano gli aveva chiesto la carta dei vini (allora non c’era, o, se c’era, non veniva esibita). I am the wine list, disse Guido. Lui della cantina era coscienza, memoria, custode e illustratore. Ho deciso di essere la stessa cosa. C’è ancora molto spazio, disponibilità, curiosità.
Però: affanculo i tannini, gli antociani, o guyot speronato, le marne mioceniche, affanculo anche il cinque per cento di syrah o di mouvedre. Non voglio più sapere niente, penso di sapere giù troppo, avrei dovuto fermarmi prima, alle degustazioni. C’è la salvia sclarea, la senti? Difficile, non l’ho mai vista in natura. L’ananas, quello sì. Il cuoio di Russia vale la salvia sclarea, la pipì di gatto è più familiare, i piccoli frutti rossi ormai li sentono anche gli astemi, ma in quegli assaggi ancora mi ritrovavo. Gli uomini conoscono i vini come i cani conoscono gli uomini, a naso. Ho scodinzolato davanti a certi bicchieri, non necessariamente sommi.
[…] Affanculo il cappello sommerso, i sapori terziari, la coltivazione ad alberello, il restyling dell’etichetta e l’attenzione al packaging. Non se ne può più, non nego il piacere della conoscenza ma preferisco la conoscenza del piacere. Confesso che ho bevuto. Confesso che se a vent’anni mi avessero proposto un calice di Yquem lo avrei rimandato indietro, apprezzate la sincerità. Confesso senza vergogna che intorno alla statale, negli anni sessanta, c’era nei bar la peggior percentuale europea di grappe micidiali, e sono sopravvissuto senza danni gastrici […] “
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