Il Nerello Mascalese e la “Montagna di fuoco”
Autoctono detto di un vino definisce l’appartenenza reciproca tra vitigno e luogo. Ed anche la relazione viscerale tra vitigno e uomo del luogo. Si dice Terroir, si legge legame ancestrale tra vitigno, paesaggio, cultura e identità.
Da straniero e ignorante quando si arriva in prossimità dell’Etna con gli scarponi da trekking, svariati litri di acqua e uno zaino attrezzato, si è portati a pensare di poter conoscere questo luogo con alcuni giorni di cammino. Ma basta avvicinarsi appena per percepire subito la vastità fisica e mitologica di questo luogo. Non un cratere ma tanti crateri, colate laviche di differenti periodi, strati su strati. Il grigio, il nero, il verde, il rosso e l’azzurro sono i colori che vanno dal cielo alla terra ed anche sotto di essa. L’Etna la si cammina in superficie e nelle viscere, mentre ogni pietra respira, trema e sbuffa. L’Etna è una creatura che vive conservando nel cuore l’imprevedibilità e la potenza della natura.
Le condizioni pedoclimatiche e il suolo (per la precisioni i suoli) possono soltanto in minima parte descrivere le peculiarità del fare vino in questo luogo.
L’enologo etneo Salvo Foti mette in risalto alcune caratteristiche determinanti per comprendere il significato della viticoltura sulla “Montagna di Fuoco“: clima, vitigno e uomo. L’Etna è un nord nel sud. I cambiamenti climatici sono veloci ed inaspettati. Le temperature invernali sono abbastanza rigide, le estati molto calde con una forte escursione termica tra giorno e notte. Il sistema di allevamento, l’alberello etneo permette al grappolo di girare libero intorno alla vite. L’ultima caratteristica è proprio l’uomo. Foti parla di “uomo etneo“, cioè l’uomo autoctono che proprio come un vitigno si è acclimatato e, come detentore della tradizione, è il solo che può coltivare la vigna e fare vino rispettando questo territorio unico.
Il principe della zona dell’Etna è il Nerello Mascalese o, più propriamente, il Niuriddu Mascalisi.
Mascalese perché è nella piana di Mascali, ristretta zona agricola tra il mare e l’Etna, in provincia di Catania, che questo vitigno è stato selezionato e ha messo radici parecchie centinaia di anni fa.
Nel 1968 il Nerello Mascalese diventa la base per la doc Etna Rosso, di cui rappresenta almeno l’80%, mentre il restante 20% è costituito dal vitigno Nerello Cappuccio, anche se oggi molti viticoltori preferiscono vinificarlo in purezza. È previsto in misura inferiore nelle doc Alcamo, Contea di Sclafani, Faro, Marsala e Sambuca di Sicilia, oltre che in quelle calabresi di Lamezia e Sant’Anna nell’isola di Capo Rizzuto.
L’alberello è il sistema di allevamento originario del Nerello. Esistono sull’Etna molte vigne ad alberello a piede franco, perché il terreno sabbioso e lavico e il clima più freddo, hanno permesso ai vigneti della zona di scampare all’attacco della fillossera.
Le uve Nerello hanno maturazione tardiva, nella seconda decade di ottobre. Il grappolo grande e allungato ha una forma conico-piramidale, compatto e alato. L’acino è di colore blu chiaro, con la buccia spessa e pruinosa.
Se versiamo nel calice un Nerello Mascalese coltivato sull’Etna da vigne ad alberello, frutto di un lavoro manuale e di una accurata selezione dei grappoli, ci mettiamo in relazione con un vino dove trasparenza e leggerezza giocano con struttura, tempra alcolica e complessità olfattiva. Il rosso rubino tende al granato, i profumi di piccoli frutti rossi e di melograno nascondono un’anima speziata e delle note di grafite. Il tannino è vellutato, il sorso lieve e intenso. L’acidità e la mineralità vivaci. Un vino profondo, incisivo, elegante, mai pesante perché si distende in verticale.
Una delle fonti per questo articolo è l’indispensabile Guida ai vitigni d’Italia, Slow Food Editore.
L’ha ribloggato su vinidisicilia.
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