Il Selvaggio dell’Aveyron e il Domaine du Cros
Il Sud ovest della Francia assomiglia a un variegato mosaico di vigneti che appartengono ad appellations diverse. I terreni variano molto a seconda della zona con un clima prevalentemente di tipo oceanico. Considerato spesso come una sottozona del vicino bordolese questo angolo di Francia regala vini tradizionali, mai banali, frutto del lavoro e della perseveranza di produttori appassionati. Nel cuore dell’Aveyron, la Valle di Marcillac, con i suoi 180 ettari complessivi, è una delle più piccole denominazioni di Francia. Zona particolarmente vocata alla viticoltura, per la conformazione dei suoli l’uva è spesso coltivata su terrazzamenti realizzati sui ripidi pendii. Il terreno è calcareo-argilloso. I vini, prodotti essenzialmente con le uve Fer e Mansois piuttosto dure e rustiche, sono predisposti all’invecchiamento.

Domaine du Cros appartiene alla famiglia Teulier. Fino al 1982 questa famiglia possedeva un solo ettaro di vigneto producendo circa 4000 bottiglie all’anno. Oggi Philippe Teulier e il figlio Julien possiedono 30 ettari. Da sempre un solo vitigno: il Fer Servadou per l’appunto (localmente denominato Mansois).
Abbiamo degustato Aoc Marcillac “Lo Sang del Pais”. Ottenuto da vigne di 25 anni, vendemmia manuale, macerazione lunga di circa 20 giorni in vasche di acciaio termoregolate. Colore rosso rubino carico, naso intenso con sentori floreali di violetta e rose, fruttato di ribes rosso e more e una spiccata nota speziata di pepe, noce moscata e liquirizia. Di corpo medio, risulta molto equilibrato in bocca. Ciò che colpisce di questo vino è l’estrema bevibilità. Ideale in accompagnamento a salumi e formaggi non troppo stagionati e crostini con paté di lepre.
Potrebbe accompagnare bene anche carni di agnello o coniglio aromatizzate con bacche di ginepro.
Una curiosità: la zona dell’Aveyron è famosa per il ritrovamento del famoso ragazzo selvaggio, chiamato per l’appunto il Selvaggio dell’Aveyron o ragazzo lupo e, infine, Victor. Sul finire del 1700 proprio in queste foreste il piccolo Victor si aggirava nudo, sudicio, aveva il naso appuntito, il mento sfuggente, i denti aguzzi e gialli.

Permanentemente ringhioso e aggressivo, incapace di parlare. Catapultato a Parigi divenne “oggetto” di studio da parte di pedagogisti e medici. Ma fu il ventiseienne Jacques Itard il solo a vedere in questo “selvaggio” un giovane ragazzo bisognoso di aiuto. Itard se ne prese cura, tentando per cinque anni di educarlo e di insegnargli a comunicare. Purtroppo i risultati non furono particolarmente soddisfacenti e nonostante il giovane Victor fece dei progressi, il fatto di essere intervenuti così tardi gli impedì di inserirsi in modo autonomo e sano nella società e non imparò mai a parlare. Piccolo excursus legato prevalentemente ai miei studi. C’entra poco con il vino, a meno che non si voglia vedere in questa storia una metafora tra la natura selvaggia e il tentativo dell’uomo di addomesticarla. Forse il piccolo selvaggio dell’Aveyron era un’uva difficile, di quelle che richiedono il giusto clima, il giusto terroir e una grande passione da parte del produttore; forse, se ci si fosse avvicinati a lui rispettando la sua natura, senza cercare necessariamente di piegarla agli stereotipi sociali e alle convenzioni del vivere civile, se si fossero accettati i suoi tannini un po’ duri, la sua spiccata acidità e la mancanza di finezza, agendo con meno scienza e più amore, il figlio dei lupi sarebbe potuto diventare una Persona, con i suoi limiti, certo, ma anche con la sua dignità.
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