Francesco Guccini: un diploma in canto e in vino
“Ho visto”, “Mi han detto”, “Ma penso” tre incipit di tre strofe della stessa canzone; la canzone con la quale Francesco Guccini chiude i suoi concerti e che raccontano molto di un uomo, di un cantautore, in grado di vivere il suo tempo, di ascoltarlo, di interpretarlo e tradurlo in un pensiero originale.
Molti hanno sempre considerato Francesco Guccini un cantautore politico, eppure è tale soltanto nella misura in cui si concepisce la politica come impegno attivo e quotidiano nel vivere il proprio tempo, nel sentirlo addosso e dentro, nel tradurlo in parola e narrazione. In realtà, nei testi di Guccini ritroviamo più spesso elementi autobiografici, esperienze personali, “stanze di vita quotidiana”. In un botta e risposta arguto e giocoso durante la trasmissione Il Laureato del 1995, Piero Chiambretti gli dice che lui piace a tutti, è ovunque, è come la Coca-cola. E Guccini risponde “si, ma meno gasato”. Insomma il successo senza perdere la testa e, soprattutto, senza perdere mai il contatto con la gente.
Allora più che alla Coca-cola potremmo paragonarlo a un vino. Quale? Il vino del contadino. Secco, frizzante, con una punta di volatile ma immediato, beverino, da accompagnare a una fetta di salame grasso e morbido.
Eccolo il Lambrusco di Francesco.
“Il Lambrusco si beve a Modena, non a Bologna. È quella la capitale del Lambrusco, anzi “dei” Lambruschi: da giovane preferivo il Salamino, più frizzante, più aspro e secco; ora invece mi oriento sul Castelvetro, più corposo. In tavola, quando qualcuno di Modena ti invita a cena, mette sempre del Lambrusco, quel vino che sta dentro al pistoun, così si chiama la bottiglia in dialetto. Da ragazzi, andavamo spesso a farci un pistoun, dagli amici che avevano una casa in campagna vicino alla città: ricordo l’odore del mosto; era un vino che non aveva l’etichetta, quasi tutti quelli che avevano un po’ di terra se lo facevano in casa. Arrivavamo, si affettava un salame e si faceva merenda immersi in nuvole di moscerini mentre si beveva il Lambrusco vecchio: il nuovo si stava ancora facendo.”
Quindi il Lambrusco (anzi i Lambruschi) per nascita, ma anche per vocazione e coerenza. Perché, lo sappiamo, il Lambrusco non è mai stato il vino dei sommelier, dei “signori imbellettati”, dei “politici rampanti”. E non è neppure il vino di suo padre, che beve il Sangiovese toscano e che a un suo concerto non è mai andato. Guccini con il suo vino è sempre stato più vicino alla gente di campagna:
“Io sono un contadino. Mi piace stare qui in campagna perché la cosa più importante è il meteo. Che tempo farà domani, ecco che cosa conta davvero qui”
Il “qui” non è un luogo qualunque, non è una campagna qualsiasi: è Pàvana, piccolo comune del Pistoiese, zona di confine tra Toscana e Emilia, dove Guccini ha trascorso gli anni dell’infanzia e dove è tornato a vivere da diversi anni. Pàvana e la casa dei nonni, è dove sono le sue “Radici”.
La casa sul confine della sera oscura e silenziosa se ne sta, respiri un’ aria limpida e leggera e senti voci forse di altra età… La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l’anima che hai…
Se il “Vecchio e il bambino” hanno l’anima a Pàvana e il naso nel vino contadino, nel Morastello e nell’Albana con le ciambelle dei giorni di festa, l’adolescente e l’uomo vivono tra l’amata e odiata Modena, “piccola città, bastardo posto”, e le osterie di Bologna.
Il vino diventa quello delle Osterie, è un vino bevuto soprattutto perché economico, tramite di convivialità, un’occasione di socializzazione. Nelle osterie si canta, si beve, si gioca a carte e si parla di libri, di donne, di politica. Osterie che ormai vivono soltanto nella memoria e nelle canzoni di Guccini.

Guccini all’Osteria delle Dame
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta: qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità, si è sposato, fa carriera ed è una morte un po’ peggiore…
La Canzone delle osterie di fuori porta è del 1972: gli slanci utopistici, la rabbia energica e creatrice del ’68 si vanno ripiegando nella quotidianità, si cristallizzano in giudizio e paura. Da questo “incancrenirsi” del ’68 che porterà all’eroina, alle Brigate Rosse, alla messa alla berlina dei sognatori, Guccini si salva per tre ragioni principali. La prima è che nel ’68 ha ventotto anni e, quindi, lo vive già con una certa distanza anagrafica rispetto ai “giovani” protagonisti del movimento, la seconda è il suo spirito anarchico e libertario, che lo ha sempre tenuto distante anche dal Comunismo di partito, la terza è il suo pessimismo. Quest’ultimo è un pessimismo cosmico di stampo leopardiano. Lo stesso Guccini racconta ridendo di essere nato il 14 giugno, lo stesso giorno in cui muore l’amato poeta Leopardi (Recanati 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837) ma anche quello in cui nasce Che Guevara (Rosario, 14 giugno 1928 – La Higuera, 9 ottobre 1967). Coincidenze per le quali sorridere e fare un brindisi.
Il vino delle osterie non è soltanto convivialità e allegria. Il vino delle osterie è anche quello della malinconia. Come sempre questa “bevanda” è uno specchio della complessità della vita. Nel calice di vino ci sono Leopardi e Che Guevara, ci sono i sogni, le utopie, la natura crudele, il fatalismo, le perdite. Il vino accompagna, esalta, consola o ammazza.
Appoggiato sulle braccia, dietro al vetro d’ un bicchiere, alza appena un po’ la faccia e domanda ancora da bere. I rumori della strada filtran piano alle pareti, dorme il gatto sulla panca e lo sporco appanna i vetri.Cade il vino nel bicchiere poi nessuno più si muove e non sai se fuori all’aria ci sia il sole oppur se piove. E quell’uomo si ricorda e, per uno scherzo atroce, quasi il vino gli dà forza, l’illusione gli dà voce.E si alza sulle gambe, sbarra gli occhi e poi traballa, come con i riflettori sopra il gesto delle braccia.. La la la la la la ..Ma si ferma all’improvviso e ricade giù a sedere, torna l’ombra sul suo viso, torna il vino nel bicchiere. E lontano, oltre, nel tempo, una folla misteriosa è scattata tutta in piedi, grida: “Bravo, bene, ancora!” Son tornati i riflettori sul suo viso e sulle mani, si alza e accenna ad un inchino per quei pubblici lontani. E più forte tra quei muri quella voce ora si è alzata e fa tintinnare i vetri e rimbalza sulla strada…
Tra alti e bassi vocali e umorali ne L’Ubriaco (1970 – Due anni dopo) riconosciamo un po’ il destino dell’artista e del poeta come nell’Albatros di Baudelaire
Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini le sue ali di gigante.
Nel gennaio del 1975 sulla rivista Gong, Riccardo Bertoncelli recensisce l’album “Stanze di vita quotidiana” in modo fortemente negativo. “Vino + intimismo + lezioni d’italiano + vita provinciale è una somma che non comprendo nel momento stesso in cui non è la mia…” comincia così la critica e continua con note ancora più violente. Una recensione che resterà nella memoria come vino nella bottiglia. Da questo affinamento in bottiglia verrà fuori un testo che è il manifesto umano (non artistico però) del Cantautore Francesco Guccini: L’Avvelenata, contenuta in uno dei suoi album più belli ” Via Paolo Fabbri 43″.
Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, io fascista, io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista! Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino, io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare!
Diceva Che Guevara “senza perdere la tenerezza”, per Guccini potremmo dire “senza perdere la giovinezza” e non perché “gli eroi son tutti giovani e belli” ma perché tra noia, fondi di bicchiere, notti lunghe e sguardi tristi, Guccini è riuscito a mantenere lo slancio di entusiasmo tipico della gioventù, la scintilla rivoluzionaria. Perché, alla fine del giorno, alla fine della notte, in fondo va bene così; ci si guarda allo specchio e gli occhi coerenti e vitali si fanno sorriso e vino mosso nel calice della vita.
Ma cosa c’e’ proprio in fondo in fondo,
Quando bene o male faremo due conti,
E i giorni goccioleranno come i rubinetti nel buio
E diremo “…un momento… aspetti…” per non
Essere mai pronti;
Signora Bovary, coraggio pure,
Tra gli assassini e gli avventurieri…
In fondo a quest’oggi c’e’ ancora la notte,
In fondo alla notte c’e’ ancora, c’e’ ancora…
Anche adesso che non canta più, che la schiena gli duole sotto il peso degli anni, e la vista non è più tanto buona, Francesco Guccini, un po’ Sancho Panza, un po’ Don Chisciotte, si appassiona al movimento, alla vita che è movimento, fossero pure semplici immagini che corrono su uno schermo televisivo. Il vino?! Ultimamente ha detto di bere di più il vino bianco, il Traminer in particolare.
Le osterie saranno pure chiuse ma il cuore, il cuore è sempre aperto.
Ma s’ io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso, mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso e quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare: ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!
Ho ancora la forza di non tirarmi indietro, di scegliermi la vita masticando ogni metro, di far la conta degli amici andati e dire: ” Ci vediam più tardi …”E ho ancora la forza di scegliere parole per gioco, per il gusto di potermi sfogare perché, che piaccia o no, è capitato che sia quello che so fare… Abito sempre qui da me, in questa stessa strada che non sai mai se c’è col mondo sono andato e col mondo son tornato sempre vivo…
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