Erri De Luca e il vino dell’avvenire
Erri De Luca è uno scrittore, giornalista e attivista napoletano. L’ho conosciuto un paio di anni fa durante la presentazione di un suo libro e mi ha conquistato con la sua grande sensibilità. I suoi occhi hanno il colore del cielo e del mare e sono sempre vigili, sanno scrutare e comprendere. Ma esprimono anche una grande determinazione, la stessa con la quale egli ha sempre lottato per i diritti civili e per la tutela dell’ambiente. Quando parla o scrive di vino riesce a metterne in luce il suo autentico valore. In questo breve scritto racconta il suo incontro con un vino in particolare il Per’ e Palummo, il vino dell’avvenire…
“Ho conosciuto un vino che mi chiudeva gli occhi e mi attaccava la lingua sotto la volta asciutta del palato. L’ho assaggiato in un solo posto, sul monte Epomeo, isola d’ Ischia.
Un tempo sulla cima c’era un ristoro e delle stanze scavate nel tufo da monaci arroccati. Ci ho dormito sonni minerali, duri quanto i sassi. Lassù anche d’ agosto serviva un po’ di lana addosso, dopo il sole calato dietro Ponza.
L’oste si chiamava Luigi, massiccio e con un occhio di vetro dovuto a una cartuccia esplosa dal fucile. In uno scavo teneva bottiglie di vino stese al buio, custodite da polveri incollate. Mi permetteva di sceglierne una, che prendevo dagli strati inferiori.
Riportata alla luce, ripulita, dichiarava le generalità: nome e anno di nascita. Il mio preferito si chiamava Per’ e Palummo, piede di colombo. Era cupo: sollevato contro la sfiammata del tramonto l’ oscurava, senza sfumature.
Era spremuto da un vitigno solo, sui versanti a ponente dell’isola d’ Ischia, detta Aenaria, la vinosa, dai Romani. La stappavo con un cavaturaccioli dal manico di legno stringendo la bottiglia tra le gambe. Ne estraevo il sughero come si cava un dente.
Il primo sorso di Per’ e Palummo restava chiuso a pugno, aspro e compatto. Mi faceva stringere le palpebre e mi procurava il prurito della profezia. Vedevo il vento scuotere i castagni e figuravo gli anni. Erano frutti chiusi dentro i gusci spinosi, sarebbero caduti, rotolati.
Già il secondo sorso era più sobrio: mettevo a fuoco le distanze, riconoscevo i giorni da raggiungere, vicini e vagabondi.
Dalle fessure delle ciglia seguivo la processione degli strati di violetto, sopra l’orizzonte alla fine del giorno. Non mi voltavo a oriente dove il Vesuvio scompariva sfebbrato , come un qualunque monte.
Il vino rosso non metteva pace. Uscito dal suo buio, furioso per il disturbo, come il genio dalla lampada, strepitava nel cranio. Che volevo da lui, perché lo suscitavo? Insegnami a contare i giorni, a fare sì che contino per me. Allora il vino si precipitava nel mio vuoto, si posava sul fondo e da lì emergevano le favole dell’avvenire. Erano vicoli ciechi e cime di montagne, dannazioni e abbracci, fino alla donna per la quale dire: ecco sei tu, definitiva e ultima.
A nessun altro vino ho chiesto l’ avvenire.
Oggi ne bevo sorsi col desiderio opposto, di ottenere la grazia di un ricordo qualunque.”
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