Pezzi da 90 – Parte I

Gli anni ’90 sono anni di transizione. Le macerie del Muro sono dietro l’angolo e il sistema mondiale è in cerca di una nuova penna per ridisegnarsi. L’equilibrio del bipolarismo era pur sempre un equilibrio. Gli Stati Uniti affermano la loro supremazia mentre la Madre Russia si sfalda e viene invasa dagli idoli dell’Occidente. Nel Terzo Mondo (che era tale solo perché esistevano gli altri due divisi dalla cortina di ferro) cominciano a scannarsi tra loro, armati dallo Zio Sam o dalla Madre di cui sopra. Intanto, in Italia, il vuoto politico lasciato dal crollo delle ideologie apre le porte alla discesa in campo di un imprenditore che nei venti anni successivi distruggerà la dignità del paese (oltre alla sua economia). Gli adolescenti si innamorano di Brandon o Dylan. Al citofono tutti cercano Gigi ma trovano solo la Cremeria. Notti magiche aspettando un gol che non arriva e ci relega al terzo posto. Per questo, e per dimenticare la colonna sonora della pubblicità progresso su l’Aids che se lo conosci lo eviti e se non lo conosci ti uccide, abbiamo deciso di degustare quattro grandi vini che hanno contribuito a dare un qualche senso a questo decennio altrimenti inutile.

Piemonte, Umbria, Abruzzo. 1990, 1997, 1998, 1999. Al tavolo otto degustatori. Uno solo negli anni 90 era già un uomo fatto. Altri due erano sulla buona strada per esserlo. Uno era praticamente un bambino. I restanti tre affrontavano in maniera diversa l’adolescenza. Tra questi ultimi anche io (gli anni più infausti della mia vita). Tutti uomini, all’infuori della sottoscritta.

Ora, per dirla con uno dei personaggi di Paz, la meccanica non mi interessa. Quindi lascerò i commenti tecnici e le dispute sui diversi terreni delle Langhe ai miei compagni, molto più sapienti e preparati di me. Io guardo quello che ho nel bicchiere. Quattro vini corposi, intensi, persistenti. Insomma anche i vini in degustazione sono maschi o almeno sono come vorremmo che fossero i maschi.

Il Trebbiano di Valentini ammicca sornione, se la ride consapevole del fatto che se non fosse scritto sull’etichetta 1998 con tutta probabilità non saprei che età dargli. E’ vivace e intenso. Rustico come i contadini di una volta, quelli che andavano in campagna all’alba con il fiasco di vino, un tozzo di pane e la zappa. Camicia a quadri, sudore e viso bruciato dal sole. Andavano in vigna per lavorare e non per farsi i selfie. Ne ho conosciuti pochi di contadini; nella mia famiglia, così, ricordo soltanto il mio bisnonno che aveva fatto la guerra (dalla parte sbagliata però) si era preso la malaria e poi era tornato a casa. Negli ultimi anni le terre si erano ristrette ad un orto, coltivato ormai per svago o perché forse non c’era altro che sapesse fare. Io ero molto piccola quando lo accompagnavo. Correvo intorno al capanno degli attrezzi e c’era nell’aria odor di pollaio. A casa ci aspettavano minestrone di verdure e crispelle fritte nell’olio. Di questo passato restano soprattutto gli odori. Torno al mio calice e una fila di ballerine saltella sulle punte. Profumano di camomilla, ginestre e gelsomino. Sottili, lievi, piroettano senza incertezze. Una bottiglia in otto è una tortura.

Con il Cervaro della Sala mi ritrovo al banco del mio amico Mohamed nel mercato di Fez in Marocco: datteri, uva passa, albicocche e fichi essiccati, noci e stecche di cannella. Sento parlare di bottiglia infelice. Chissà… io penso che una bottiglia è una bottiglia. Certo l’ambra consistente nel calice testimonia che in quindici anni questo vino ne ha viste tante. E il peso lo si sente fino in fondo allo stomaco; tuttavia una freschezza che ancora si avverte sulla lingua e le gengive racconta della leggerezza che sopravvive alla necessità.

Del Valentini Montepulciano direi che è vino. Rosso. A mio avviso potrebbe bastare. Nessuna particolare descrizione del bouquet aromatico (seppure la violetta, le rose, i gerani, i richiami erbacei, la liquirizia, il sottobosco, la noce moscata, la cannella…) soltanto un gioco dove dici “Valentini” e io rispondo “vino”. E se non fosse per il costo questo vino potrei berlo quotidianamente, a tutto pasto, a sorsi piccoli o grandi. Infatti finisco il mio calice prima di terminare la degustazione. Ma il vino non è fatto anche per essere bevuto?

Alla fine resto con il Cerequio 1990. Quello sguardo me lo ricordo. Quegli occhi che senti addosso, dritti, fermi, penetranti. Il pizzo che cerchi di far uscire dalla camicetta: prendimi, fammi ballare, portami a letto. Sono pochi gli uomini che sanno farlo, questo vino ci riesce (stilando una statistica senza nessun fondamento scientifico direi che il vino, in generale, ci riesce molto più spesso degli uomini…). Quella che chiamano traccia ematica è carne nuda, sudore, saliva. Il sesso di una notte che resta sul corpo per un alba soltanto lasciando nell’anonimato le storie personali, i limiti, le bollette, il sabato all’Ikea, il senso di pesantezza e il mal di testa.

Bene, ora sarebbe il momento di passare alle schede organolettiche dei vini, alla descrizione delle tecniche di vinificazione e affinamento di ciascun produttore, alle valutazioni sulle annate… purtroppo presa dalla piacevolezza dei vini, dai ricordi e da una forma di alcolismo latente, ho dimenticato di prendere appunti. Confido nei miei compagni per una descrizione più seria e precisa di questa degustazione.

Post Scriptum.

Nota 1: la ricostruzione dei fatti storici relativi al decennio 1990-2000 è assolutamente aleatoria e faziosa.

Nota 2: i ricordi dell’infanzia potrebbero non corrispondere esattamente alla realtà ma essere stati manipolati ai fini narrativi.

Nota 3: per chi ancora lo cercasse Gigi è tornato finalmente a casa.

Informazioni su La Fillossera - Innesti di vino e cultura ()
Graziana Troisi è l'autrice del blog e degli articoli. Alcuni articoli sono di Giovanni Carullo.

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