Il vino come metafora, postumi da Vinnatur
Nella testa le radici, la durezza, nel torace le foglie, la respirazione e il movimento, nell’addome il fiore, la riproduzione, la rigenerazione e il calore. Questo l’intreccio profondo tra uomo e mondo vegetale. Siamo ciò che mangiamo e mangiamo ciò che siamo.
Una volta Sandro Sangiorgi mi disse che il vino o è naturale o non è vino. Era un rimprovero in risposta a una mia provocazione. Da molti anni degusto umilmente vini: convenzionali, artigianali, biologici, biodinamici, naturali, industriali, chimici, di laboratorio; cercando di comprendere il Vino spesso sepolto dietro gli aggettivi che lo accompagnano. Mi piace conoscere le persone che se ne sono preso cura e, quando posso, visitare i loro vigneti e le cantine.
Il vino è la metafora della nostra vita su questa terra. Per questo se ne parla tanto e per questo ci si infervora tanto nei dibattiti. Sotto questo aspetto esso entra a far parte della sfera dell’intimità, ha a che fare con la nostra identità, col nostro sistema di valori. E, nell’epoca attuale, è connesso con le dinamiche del mercato proprio come ciascuno di noi. In questo c’è tutto l’aspetto conflittuale tra piacere e lavoro, tra realizzazione di un sogno e strumento di guadagno. Il vignaiolo fa il vino e poi cerca di venderlo. Nel confronto con il mercato la scelta discriminante riguarda il profitto che dal proprio lavoro si vuole ottenere. La misura di quello che potremmo avere se agissimo in maniera differente da come facciamo (ferma restando la possibilità di farlo) ci definisce come persone e marca il contributo che decidiamo di dare alla società.
L’Associazione Vinnatur ha, tra i suoi scopi, quello della divulgazione dei principi della viticoltura naturale al pubblico attraverso incontri e fiere di settore. Fiere come quella che si è svolta a Novembre a Roma e che ha raccolto nella capitale 75 produttori di vino naturale provenienti da 14 regioni italiane, dalla Spagna e da alcune zone vitivinicole francesi, quali Champagne, Alsazia e Roussillon. In generale un livello buono dei vini proposti e, soprattutto, una grande voglia di raccontarsi.
Diversi i temi emersi dallo scambio con i vignaioli. Primo fra tutti la questione del cambiamento climatico che, nelle ultime vendemmie, si è avvertito in maniera drastica modificando i tempi di maturazione e di raccolta e incidendo sulla salubrità delle uve e la redditività.
Poi la stretta interconnessione tra vigneto ed ecosistema. Eliminare ogni pesticida dal vigneto richiede la conoscenza e la preservazione dell’ambiente naturale generale. Per questo diventa essenziale la sperimentazione di approcci agrari innovativi per la tutela della biodiversità.
Ambiente, suolo, territorio le parole chiave ma anche mercato, gusto e intermediazione.
Quando del fare vino si vuole fare il proprio lavoro e i numeri, i costi e gli investimenti aumentano diventa necessario confrontarsi con il mercato di massa, generalmente abituato a vini morbidi, rotondi, profumati, ma soprattutto alla possibilità di ritrovare sostanzialmente lo stesso vino ogni anno. L’intervento enologico molto spesso serve proprio a preservare l’identità “pre-confezionata” di un vino. Il vino naturale ha un margine di imprevedibilità maggiore; ogni annata è differente e anche il vino che ne è espressione lo sarà. Se non si vuole subire il mercato rischiando di perdere la propria identità occorre un impegno forte nella divulgazione dei principi di una agricoltura naturale e di una pratica enologica non invasiva e dei vantaggi che essa presenta in termini di salute e percezione sensoriale. Purtroppo ai bravissimi vignaioli manca un supporto decisivo, quello degli intermediari del consumo, ovvero i ristoratori e il personale addetto al servizio di vendita e mescita in sala. La scarsa preparazione degli addetti ai lavori sembra un male incurabile in Italia che danneggia tutto il comparto Food & Beverage. Il lavoro della sala dovrebbe essere tanto quello del servizio quanto quello della comunicazione con il cliente che quasi sempre è molto ben disposto ad assaggiare prodotti nuovi e diversi qualora gliene venga offerta l’opportunità. L’educazione al gusto dovrebbe trovare negli operatori del settore i primi insegnanti.
L’ultimo tema emerso è (ancora) quello della solforosa.
L’assenza di solforosa rappresenta (ancora) un elemento che molti vignaioli sentono di dover comunicare al degustatore, dimostrando quanto abbiano subito una certa opinione pubblica che negli ultimi anni ha identificato in questo elemento il male assoluto e il discriminante tra un vino naturale e un vino convenzionale/industriale. Forse perché, per molti, nell’universo degli additivi chimici, la solforosa rappresenta la variabile più facilmente comprensibile. Per chi scrive si tratta di un argomento davvero noioso. Siamo tutti contenti che molti vignaioli si propongano di ridurre o eliminare del tutto l’utilizzo della solforosa, ma questo fattore non rende automaticamente un vino “naturale” e soprattutto non sempre lo rende più buono. Anzi, un pizzico di solforosa avrebbe salvato alcuni vini potenzialmente meravigliosi che ho assaggiato durante la fiera e invece rovinati da un finale sporco e un retrogusto spiacevole. Se si elimina la solforosa si devono parallelamente aumentare i controlli su tutto il processo di vinificazione e la pulizia della cantina deve essere perfetta. Ci sono diversi produttori che dimostrano come si possa fare un vino buono, salubre, pulito anche senza l’utilizzo della solforosa e, per fortuna, non sentono il bisogno di sottolineare questo aspetto quando presentano il loro vino.
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